La notte tra poco verrà

Ho cantato per 45 minuti le solite 3 strofe di quella ninnananna nordica che ho imparato i primi mesi della nostra vita insieme.
“Dormi ora dormi mio topolino…”
Ogni volta che provavo a prendere fiato o a recuperare un po’ di salivazione allargavi le braccia che sembrava dicessi “embè?”
Un pò come quelli che all’ultima canzone dei concerti gridano “se non metti l’ultima noi non ce ne andiamo”. E di solito quella è l’ultima canzone. E invece la ninnananna ha il potere di continuare sempre uguale, ininterrottamente.

Alla fine ti sei seduto sulle mie gambe ha fissato i tuoi occhi liquidi nei miei un po’ più spenti dei tuoi e hai appoggiato il capo sul mio petto. Tamburellando le dita sulla pelle del mio fianco, cullato solo dal respiro.

Dormi cosi, con le cosce fresche e il ciuffo un po’ scompigliato dal ventilatore.

E io interamente tua, sotto il tuo tiepido peso.
“La terra intera riposerà perché la notte tra poco verrà, persino il gatto dormire dovrà.”

Tutto dormirà di Astrid Lindgren

Libertà. Partecipazione. Resistenza

Il 25 aprile con gli occhi di una che si è sempre sentita a disagio a scendere in piazza.
La festa di una liberazione che nessun nonno, nessuna nonna, mi ha mai raccontato. Una liberazione di cui non conosco le rughe ma ne riconosco i lineamenti. Quelli descritti a date e fatti dalla storia: una liberazione studiata, una resistenza letta e rispettata.
Raccontare la resistenza è resistenza essa stessa: una resistenza contro la dimenticanza, contro le barbarie, contro la le perdite, il dolore senza tempo o il dolore di tutti i tempi.

Ascoltare la resistenza è una scelta.

Lo comprendo oggi, tardi forse per i miei 30 anni. Anni a chiedermi se fosse un privilegio poter ascoltare la voce, scorrere le rughe, fissare gli occhi di chi ha resistito. Un privilegio che, tra i molti che fortunatamente ho, sfortunatamente non mi era stato concesso. A tratti quasi un rimprovero a me stessa per non aver osato mai toccare quelle corde finché ne ero in tempo, finché quelle voci, volti, occhi erano lì.
Ascoltare la resistenza, invece, è una scelta. Scendere in piazza con questo cielo torbido è una scelta. Camminare dietro alle bandiere, dietro alla tromba, davanti ai bambini è una scelta. Da tutto questo, poi, devi scegliere di ascoltare. Il racconto è lì. Dalla voce di una nonna non tua, dalle mani di un nonno non tuo che lascia cadere il bastone per applaudire all’inno.

Educare all’ascolto è quello che ho imparato oggi. Quello che racconterò a mio figlio.

Libertà. Partecipazione. Resistenza, Martina Vincenti, 2022

Quale bene portiamo?

benefìcio (non com. benefìzio) s. m. [dal lat. beneficium, comp. di bene «bene» e tema di facĕre «fare» (cfr. -ficio)].

Il tuo primo vaccino.
Anzi il tuo primo cocktail di vaccini, ben tre: esavalente, pneumococco e rotavirus.
Non fare caso a come li snocciolo con fare esperto adesso, la verità è che appena le conosco certe malattie.
E per fortuna, direi!
Anzi, neanche per fortuna, vorrebbe dire sminuire anni di ricerca, di studi, di sperimentazione. Ecco sì, tua mamma da classicista col cuore a righe ringrazia infinitamente tutte quelle menti a quadretti che negli anni mi hanno permesso di potermi dimenticare a cuor leggero di tante malattie. E ti dico questo perché un giorno leggerai (o forse studieremo insieme) che questo periodo ha visto rafforzarsi persone che si definiscono novax e che un pugno di loro ha potuto tenere in scacco ospedali e terapie intensive, impedendo le cure ad altre persone malate e mettendo a repentaglio la vita di tutti oltre, che la loro.
Ti ho portato dentro me per 9 mesi, prima durante e dopo i quali è imperversata a più riprese una pandemia mondiale per la quale sono morte milioni di persone di tutte le età in tutto il mondo, per la quale siamo stati chiusi in casa per settimane per la prima (e spero unica!) volta nella mia vita, per la quale è dovuto intervenire l’esercito perché i morti erano troppi da contare e la tristezza senza fine ad ascoltare il telegiornale. E dopo appena un anno dal suo inizio la scienza ci ha portato il vaccino per questa malattia e io non ho esitato, né per me né per te. L’ho sentita anch’io la paura, il peso della responsabilità e la preoccupazione per quello che stavo facendo così ad occhi chiusi ma prendersi cura vuol dire davvero amare due volte: nella malattia e nella prevenzione.
Sii sempre fiducioso nella scienza, rispettoso verso gli altri, ragionevole nelle tue scelte e nelle tue opinioni.
Se oggi posso abbracciarti baciarti portarti fuori tra la gente lo devo anche e soprattutto a questa scienza che sta rendendo sicure tutte queste azioni che incredibilmente per più di un anno non lo sono state per nessuno di noi.

Salutare i treni

C’è sempre una stazione o dei binari nei miei ricordi.
La prima casa nella quale ho vissuto e della quale forse sentirai parlare come di un posto che esiste in qualche regno della fantasia, come quelli nelle favole, era per me la cosa più simile a un castello e vi si accedeva (e si accede tutt’oggi) non da un fossato con i coccodrilli ma da una via ferrata e due sbarre a righe diagonali rosse e bianche. A quel passaggio a livello mille volte con tua nonna abbiamo cantato “ecco il treno lungo lungo che attraversa la città” e mille e più volte, finita la canzone, c’era da ricominciare perché il treno si faceva attendere non poco.
Intorno a quelle stesse rotaie si giocava a salutare il macchinista con le mani aspettando il suono forte e caldo che ricambiava il nostro entusiasmo. Ci giocavamo d’estate ma il treno continuava a salutarci per buona parte dell’inverno, finché non si stancava. I più audaci tra i miei cugini si arrischiavano a salire su per la scarpata e mettere una monetina sulla rotaia, ma a me quel gioco era proibito e, a dirla tutta, forse non ci avrei mai provato anche se mi fosse stato concesso.
Crescendo scoprii che la mia prima amica del cuore abitava in via della Stazione e che anche dalle sue finestre si poteva ascoltare lo sferraglio. Lì però il meccanista non strombazzava per far giocare i bambini, d’altronde in paese c’è chi vuole dormire e forse non avrebbe apprezzato quel gioco di saluti. Invece lì si poteva ascoltare la voce registrata di chissà chi che annunciava che questa era la stazione di Rapolano, per chi era viaggiatore e non sapeva dove scendere.
Giunta all’università ringraziai che fosse così vicina alla stazione, cosa che mi permetteva di risparmiare passi preziosi che avevo tanto consumato durante le lunghe passeggiate andando al liceo. In quegli anni scoprii anche che sui treni ci si sale con diversi stati d’animo: eccitazione per le prime nuove amicizie, ansia e ripassi disperati prima degli esami, infinita sconfitta dove certe giornate storte, stanchi morti dopo 8 ore di lezione.
Oggi viviamo ad Asciano e la stazione o i binari non hanno un ruolo particolarmente di rilievo se non che per il paesino che è ha ben due stazioni e il rumore dei treni disegna un sottofondo ovattato che rimbalza da un capo all’altro della via Lauretana Antica. Forse questo ritmo di ferro e voci registrate sarà anche per te un tassello della memoria. O forse rimarrà una frase di questo lungo pensiero. Ognuno è artefice dei propri ricordi, ciascuno sceglie cosa tenere nella propria mappa dei ricordi e cosa omettere.

Mi piacerebbe, un giorno, leggere la tua.

Vivere nei tuoi occhi

I tuoi occhi se vedono il mondo, mi chiedono.

Se le tue giornate sono ombre, mezzi toni, luci. Se quelle biglie azzurre, che ormai a me pare volgano al verde ma “tanto sai quante volte cambieranno colore!?”, se questi occhi insomma stanno già percorrendo le immagini della nostra casa, i profili della tua mamma, del babbo, dei nonni, della piccola Eva. Se quella furia nera di sorella maggiore col pelo che ti sei ritrovato riesci già a riconoscerla quando si avvicina pronta a leccarti. Se il giallo e il blu e il grigio della carta da parati della tua cameretta ti piacciono o gli animali di questo libro di stoffa ti incuriosiscono.

Ho aspettato di vederti, di sapere con quali occhi ti avrei guardato.

Adesso che i miei occhi non devono più chiedere in prestito alla fantasia le immagini per raffigurarti, adesso che ogni dettaglio lo posso studiare a memoria ma ogni volta preferisco tornare a studiarlo di nuovo, più da vicino, da un’altra prospettiva, sotto un’altra luce, adesso che posso riversare i miei occhi nei tuoi, adesso non voglio chiedermi se puoi già vedere il mondo. Sono pronta a continuare a raccontartelo tutto per filo e per segno, con le parole dei libri che ti leggerò, delle canzoni che ascolteremo, delle ninnenanne al petto che ti sussurrerò.

Mi chiedo come fa
Come ci si sentirà
A vivere negli occhi di un neonato

Un tempo buono da gustare

Mentre dormivi sono scesa a rubare i fichi alla pianta qui sotto, in giardino.


Sei nato nel mese in cui è ancora possibile mangiarli così, direttamente dall’albero, con la buccia.
Senza paura della toxoplasmosi, ormai.
E mentre me ne riempio le mani, appiccicose di quel latte bianco dei frutti non perfettamente maturi, mentre mi intrufolo tra le foglie basse, penso se anche tu amerai i fichi come me, o se quella sensazione un po’ viscida e granulosa in bocca e il gusto decisamente dolce ti disgusterà, come al babbo. Se ti piacerà la marmellata sulla crostata della nonna, o con il formaggio.

Mentre dormivi ti ho immaginato in tutto il futuro che avremo davanti, in un tempo dilatato, lento, pieno, saporito. Buono da gustare, da annusare, come questi fichi.
Come la tua pelle.

Una malinconia dal mare

skyline

 

A un anno di distanza ti penso spesso, come una donna innamorata pensa al suo amore perduto. E ogni volta che ti penso ti sento un po’ più mia. E in una piccola, piccolissima parte lo sei stata, nell’orizzonte frastagliato dei tuoi minareti, nelle acqua placide del Bosforo: ogni volta che ne parlo ne vedo i contorni, ne sento il fruscio. Sei stata per me madre permissiva e tenace, amante docile e sfrontato. Sei stata compagna e solitudine, coraggio e rassegnazione, ozio e riflessione. Non mi rammarico dei giorni che ho perduto pensandoti troppo sfacciata, menefreghista e ammaliatrice. Mi rallegro di ciò che mi hai dato, perché in fondo, nulla mi hai tolto, ma solo insegnato. Oggi che giaci in ginocchio e ferita sento di doverti le mie scuse e la mia vicinanza con la gratitudine di un figlio cresciuto che abbraccia sua madre.

Non piangere Istanbul, non piangere più.

 

Istanbul non porta la tristezza come “una malattia temporanea”, oppure “un dolore di cui liberarsi”, ma come una scelta.

Orhan Pamuk, Istanbul

Chi mi porterà in salvo?

I lock my door upon myself

Fernand Khnopff, “I lock my door upon myself”, 1891

Christina G. Rossetti, “Who shall deliver me?” from Poems, 1876:

WHO SHALL DELIVER ME?

God strengthen me to bear myself;
That heaviest weight of all to bear,
Inalienable weight of care.

All others are outside myself;
I lock my door and bar them out
The turmoil, tedium, gad-about.

I lock my door upon myself,
And bar them out; but who shall wall
Self from myself, most loathed of all?

If I could once lay down myself,
And start self-purged upon the race
That all must run ! Death runs apace.

If I could set aside myself,
And start with lightened heart upon
The road by all men overgone!

God harden me against myself,
This coward with pathetic voice
Who craves for ease and rest and joys

Myself, arch-traitor to mysel ;
My hollowest friend, my deadliest foe,
My clog whatever road I go.

Yet One there is can curb myself,
Can roll the strangling load from me
Break off the yoke and set me free

TRADUZIONE

“Dio mi rafforzi nel sostenere me stessa
quel peso da portare, più pesante di ogni altro
un inalienabile fardello di affanni.

Tutti gli altri sono lontani da me,
chiudo a chiave la porta e li sprango fuori
l’inquietudine, il tedio, l’inedia.

Chiudo a chiave la porta su me stessa,
e li sbarro fuori. ma chi si proteggerà
da me, più odiata tra tutti?

Potessi un giorno abbandonare me stessa
e cominciare a purificarmi nella corsa
che tutti devono correre! La morte viaggia veloce.

Potessi mettermi da parte
e intraprendere con cuore alleggerito
quella strada che tutti gli uomini percorrono.

Dio mi rafforzi contro me stessa
questa codarda con voce patetica
che implora quiete, riposo e felicità.

Me stessa, traditrice di me stessa,
mia falsissima amica, la nemica più mortale,
mio fardello, qualsiasi strada io percorra.

Ma c’è Qualcuno che possa trattenermi,
far rotolare via da me il soffocante peso
distruggere il giogo e liberarmi.”

L’ingresso

Nessuna parata,
La banda tace,
Le campane non hanno suonato.

La sposa è entrata senza fare rumore,
Gli invitati stupiti l’aspettavano sul sagrato coi visi rosa e gli occhi accesi.

La navata silenziosa non la vide.

La sposa è entrata con il vestito tra le mani e i piedi scalzi. Solo lo sposo la riconobbe. 
L’attesa non l’aveva scalfito, il fiore all’occhiello era un bocciolo per la sua amata. E lei arrivò per lasciarsi amare, entrò defilata per rimanere, una colonna di quella navata silenziosa.

Ah, come si aspetta il tempo che non sappiamo riempire e come ci sfugge quello che non vorremmo lasciare!

Nessuna parata,
La banda tace,
Le campane non hanno suonato.

Gli sposi sono andati via senza fare rumore, sussurando una canzone d’amore. 

Lui le aveva aperto una porta, gli occhi, un mondo e lei entrò.
Nessun invitato era previsto, solo un ingresso imprevisto.

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Lovers, Laura Makabresku

Le parole di bocca

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Tenevo i miei occhi fissi nei tuoi, catturati, e nella mia bocca stringevo parole d’amore. 
Ma tu mi hai baciata e quelle parole non pronunciate adesso ti appartengono.
Adesso il mio amore ti appartiene.

Anniversario

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Lei sfioriva nella sua camicetta di seta profumata, mantenendo la golosità infantile di immergere il dito nella panna.
Lui si nascondeva ancora dietro una cravatta blu, troppo elegante e gualcita da manager in pensione.
Si osservavano nell’autunno delle proprie vite, l’una abbandonandosi al vento come foglia secca, l’altro sfidando il tempo e le sue intemperie, senza, ormai, troppa convinzione.

Non c’è più molto da rimediare, di frasi da ripetere, di scuse da recitare o silenzi da colmare. Non rimane molto da guardare, un corpo esile eppure così pesante sotto gli occhi tristi, velati dagli anni e dal troppo aspettare. Non restano storie da ascoltare, se non quelle che ormai, che tu lo voglia o meno, sono cresciute con te, bagaglio della tua memoria, insegnamenti che ora non accetti, e forse mai lo farai.

Il silenzio delle troppe cose dette con arroganza, delle troppe poche con affetto. Il silenzio resta, e resterà.

La vita è così grande che quando sarai sul punto di morire, pianterai un ulivo convinto ancora di vederlo fiorire.

La gonna bianca

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Mi son seduta qui e ho morso una brioche alla crema.
Sembravo in attesa. Anzi, attendevo realmente qualcosa o qualcuno che non avrei saputo riconoscere e la mia attesa sarebbe rimasta inappagata.
Un passeggino attendeva di essere ninnato e il sonno quieto e facile dell’infanzia.
Un figlio attendeva il passo incerto della madre stanca e lei attende il sole, altrettanto incerto, di un agosto opaco, al suo finale.

In una gonna bianca inamidata, sotto la pelle ruvida di questo mattino, rimango composta su questa panchina zoppa, dal legno svogliato e verdastro.

Il nonno ha messo mano alla culla e, dondolando, consegna il suo bambino alle dolcezze del sonno.
Gli occhi bianchi della madre si socchiudono, violati da un raggio caldo e tenue, il figlio si abbandona come un bastone, dimentico della propria funzione.

E tacciono le mie dita, le labbra ormai da tempo. Dopo aver molto detto, dopo aver troppo detto rimangono due altalene mute, incatenate allo stesso ramo, eppure distanti.